La Societa´ Popolare di Mutuo Soccorso Giuseppe Garibaldi di Lucca
organizza per domenica 9 marzo 2014 ore 17,00 la presentazione del libro di Aldo Agosti "Il Partito Provvisorio" sul PSIUP.
Ne parleremo con i protagonisti lucchesi di quegli anni.A seguire cena sociale.
Sinossi del libro tratto da un
articolo di Angelo d´Orsi
da Liberazione
Lo storico Aldo Agosti ricostruisce la vicenda di chi cercò da sinistra di smarcarsi dall'egemonia comunista
La
storia dei partiti politici, è una disciplina ibrida, per così dire,
che si intreccia da un lato con la mera storia fattuale, con l’altro con
quella delle idee politiche e in parte delle istituzioni: ma è una
storia, per forza di cose, attenta alle biografie, nella loro interezza,
ossia, in primo luogo, attenta alle vicende politiche, alla formazione
intellettuale degli individui, ma alle caratteristiche anche
psicologiche delle personalità, persino al loro aspetto, e ai loro tic.
Se la storia – ossia gli eventi – nascono dalla varia combinazione dei
tre fattori (contesto, scelte individuali, caso), è evidente che nella
storia dei partiti questi tre elementi sono presenti con una particolare
accentuazione forse proprio sugli individui, le loro decisioni, dietro
le quali ci sono anche elementi caratteriali, e percezioni dei contesti
che sono fortemente influenzate dalle situazioni. Nel libro di Aldo
Agosti -
Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Laterza, pp. VIII-295, euro 25,00
- sfilano vari personaggi, protagonisti , deuteragonisti, comparse.
Ciascuno con i suoi tratti caratteristici, che spesso l’autore affida a
poche righe, ma sufficienti per inquadrare e cogliere i capi (Tullio
Vecchietti e Dario Valori, essenzialmente), ma gli ideologi come Lelio
Basso, Luciano Libertini, Vittorio Foa, Emilio Lussu, Luciano Della
Mea, o ancora coloro che solo per un tratto furono parte del Psiup, i
cui nomi si leggono con sorpresa, talora persino con un sentimento che
assomiglia allo sgomento: Giuliano Amato, Fausto Bertinotti, Pietro
Ichino, Sergio Chiamparino, ma anche Gianni Alasia, Pino Ferraris,
Alberto Asor Rosa, Mario Giovana. In tal senso, anche in tal senso, il
saggio di Agosti se da un canto è un triste déjà vu, dall’altro
rappresenta una fonte di novità, scoperte, e riscoperte. Utile
memorandum in un Paese senza memoria. Memorandum naturalmente per coloro
che all’epoca erano in circolazione, ma mi chiedo che effetto possa
fare invece la lettura su chi non c’era allora. Perché, in effetti,
sembra di immergersi in un’epoca non solo lontanissima, a dispetto della
vicinanza cronologica, ma addirittura senza tempo. A cominciare dalla
sfilata di quegli uomini un po’ grigi, un po’ mesti, un po’ tanto
prevedibili nei loro gesti, nelle loro parole, nelle loro tattiche e
strategie. Eppure, quel piccolo “partito provvisorio” (la definizione fu
di Gaetano Arfé, storico e militante del Psi, in occasione del II
Congresso dei “psiuppini”), mai studiato finora (qui sta il merito di
Agosti, in primo luogo), rappresentò una componente non irrilevante non
solo della sinistra italiana, ma della intera vicenda storica del
Dopoguerra, tra gli anni Sessanta e Settanta. Storia di persone, di
idee, di organizzazione, sia pure minima, ma con una sua capillarità,
stretta fra il tronco del partito rimasto sotto il controllo di Nenni, e
i cugini comunisti. Certo, colpiscono i giudizi errati, le
liquidazioni sommarie (si veda che cosa scrive Foa, davanti all’esito
elettorale del 1963 che premiò il PCI inaspettatamente e punì le forze
che avevano dato vita al centrosinistra, inedita e tutto sommata
coraggiosa formula di governo, con tutti i suoi enormi limiti: che
quelle elezioni avevano “seppellito tre metri sotto terra”; p. 46).
Colpisce ricordare che larga parte del PCI fosse più “a destra” della
sinistra socialista, la quale veniva invitata alla calma, proprio dalla
Direzione comunista, mentre Nenni dialogava, o tentava di dialogare, con
la DC fin dai tardi anni Cinquanta. Proprio le elezioni del ’63 furono
un spartiacque: infatti dopo il Governo Fanfani (il vituperato Fanfani,
sul cui primo governo di centrosinistra, con appoggio esterno dei
socialisti, Agosti raccoglie il giudizio di Paul Ginsborg: “ottenne più
risultati Fanfani in dodici mesi che Moro in tre anni”, il che dovrebbe
anche indurci a una seria riflessione non agiografica su Moro, tra
l’altro), l’accordo programmatico DC-PSI, frutto di una delle tante
defatiganti trattative “morotee”, fu sconfessato dagli organi di comando
del Partito socialista, per la radicale opposizione dei lombardiani,
assai forti all’epoca. Il che condusse a uno dei tanti miseri esecutivi
di transizione guidati da Leone, un governo monocolore DC. A distanza di
decenni Foa riconobbe che fu un errore, come tante decisioni sue e di
altri compagni: ma Agosti mette in luce che la sinistra non avrebbe
potuto comunque accettare la clausola di esclusione del PCI, imposta
dalla DC. Il frangente portò comunque la sinistra socialista
all’isolamento nel partito. La scissione era ormai nell’aria, oltre che
nei fatti e venne, puntuale, non al successivo Congresso (il XXXV,
ottobre 1963), ma a seguito di esso. Lombardi non vi aderì, tuttavia,
perché concordava con Nenni sull’importanza della collaborazione
governativa con la DC. E tuttavia, leggendo le cronache ricostruite nel
libro, non possiamo non cogliere nelle analisi di Tullio Vecchietti una
lucida rappresentazione di uno scenario poi puntualmente verificatosi:
l’ingresso al governo del PSI con la clausola di esclusione del PCI
avrebbe portato a una drammatica, letale contrapposizione strutturale
fra i due partiti storici della sinistra italiana (p. 47). Fu buon
profeta: in fondo il craxismo nasce di qui, con la strategia del
successore di Nenni al “riequilibrio” interno alla sinistra.
I risultati congressuali segnarono una drammatica cesura nel PSI. La
scissione ne fu dunque il facile esito finale, che giunse puntuale,
eppure non per “colpa” della sinistra, che in fondo cercò di non
rompere: furono proprio gli “autonomisti” a volerla. E lo stesso PCI
coerente con la linea pregressa, tentò di contribuire a evitarla, come
del resto i sovietici. La scissione nondimeno si rivelò “un fenomeno più
consistente di quel che molti si aspettino” (p. 55). A ll’inizio del
’64 gli iscritti sono oltre 117 mila, un paio di mesi dopo superano i
131 mila. Numerosi sono i quadri dirigenti, dai parlamentari ai sindaci,
ai segretari di CdL e dirigenti sindacali (a cominciare da Foa,
segretario generale dell CGIL). Non aderisce Raniero Panzieri, ma non
pochi dei lettori dei
Quaderni Rossi e suoi collaboratori.
Anzi, come ricordano testimoni, nel PSIUP si respirava molta teoria
forgiata proprio in quel laboratorio. Malgrado i tanti nomi
intellettuali il PSIUP non fu una riedizione del Partito d’Azione!
Eppure furono molti gli intellettuali nelle sue fila, e come gli
azionisti i “psiuppini” erano degli “estremisti”. Tuttavia non si trattò
di un partito intellettuale, ma di un vero partito proletario: di
proletari urbani ma anche rurali, anzi secondo Agosti questo influì
sulla linea “massimalista”del Partito. La questione dei finanziamenti è
la più spinosa e l’autore l’affronta senza reticenze. Il Psiup soffrì di
un assurdo gigantismo: il partito voleva, consapevolmente o meno,
seguire il modello PSI-PCI senza averne la forza e i mezzi: inevitabile
l’abbraccio con Mosca, donde discende anche la cambiale pagata
nell’agosto ’68 con l’ambiguo allineamento sull’invasione della
Cecoslovacchia, rispetto alla quale il giudizio comunista fu invece
assai più critico. Agosti non nasconde nulla, anzi! Ma respinge le
etichette in uso allora e ancora oggi spesso riprodotte di partito del
KGB! Egli valorizza i distinguo in campo internazionale, per esempio
sulla Cina, verso la quale i psiuppini furono assai più aperti dei
comunisti, addirittura ponendosi come velleitario mediatore tra URSS e
Cina; ma a un certo punto, quando il culto di Mao assunse proporzioni
inquietanti, e l’animosità cinese verso l’URSS sembrò superare il
livello di guardia, voltarono le spalle alla Repubblica Popolare Cinese;
e non solo, come osserva giustamente Agosti, per la questione dei
finanziamenti da Mosca. Del resto fecero analogo dietro front verso
Cuba, quando Fidel e i suoi si posero in testa di esportare la
rivoluzione. E là di finanziamenti non ce n’erano.Rimase, sempre, il
PSIUP fedele a un rinnovato interesse di politica estera, anche se in
modo incoerente, e sovente contraddittorio: ma, mi pare, meritevole fu
la volontà di ritagliarsi uno spazio anzi proprio nel rilancio
dell’internazionalismo proletario. Era in realtà uno strano eterogeneo
miscuglio di intellettualismo ed estremismo, attento alle rivolte, alle
jacqueries, diffidente, come solo sanno essere gli intellettuali verso
ogni forma di elaborazione critica di tipo intellettuale. Dunque
diffidenza verso Marcuse, verso Pasolini, letterato e cineasta, e
disinteresse per Gramsci, probabilmente giudicato come troppo intrinseco
al PCI: dal PCI occorreva smarcarsi, in effetti, per sopravvivere, ma
era una gara allora improba. Eppure
Mondo Nuovo, il settimanale
del Partito, fu voce interessante e ricca nel panorama dei periodici
della sinistra, con notevole spazio alla cultura (Agosti insiste sulle
critiche cinematografiche di Adelio Ferrero, ad esempio). Sul ‘68 fu il
PSIUP non solo più vicino, rispetto al PCI, ma assai intrinseco al
movimento studentesco, cercando di esserne parte e guida. Del resto non
pochi dirigenti della contestazione venivano da quelle file, o vi
entrarono. Ma il ‘68 fu anche l’anno di Praga. E lì, come già accennato,
emersero le contraddizioni, le incertezze, le ambiguità messe in luce
da Agosti. Ma era sempre un gioco di equilibri, difficilissimo; tra
Cina e Russia, tra PCI e PSI, tra intellettuali e masse (una quota non
irrilevante ebbe proprio il PSIUP come riferimento negli anni fino al
‘68/70) , tra proletariato urbano e mondo rurale, tra Terzo Mondo e
Europa. Il terzomondismo fu una delle caratteristiche anzi dei
“psiuppini”; ma poi non mancarono i distinguo, e le prese di distanza.
La mesta fine del Partito, nel ‘1972, dopo la catastrofe elettorale
(sua ma della sinistra in generale) in un vortice di scissioni,
confluenze, nuove separazioni, segnò il venir meno di un soggetto minore
ma ricco di capacità di intercettare umori e sentimenti che né il PCI
né il PSI furono in grado di cogliere tra la seconda metà dei Sessanta e
l’inizio dei Settanta. Forse aveva ragione la dirigente del PCI Adriana
Seroni quando, sprezzante, affermò che quelli del PSIUP portavano “lo
spirito del frazionismo nelle ossa” (p. 278), ma si trattava di una
liquidazione sommaria che ha avuto finora un riscontro storiografico,
con una svalutazione radicale della funzione di quel “partito
inopportuno” (la formula è dello stesso Agosti, che di quel partito fu
militante). L’umiliazione dei dirigenti psiuppini da parte delle
gerarchie comuniste trovano nel rapporto con Libertini il loro punto più
alto (o basso), mostrando una notevole insensibilità politica, a cui in
fondo questo libro pone un rimedio, sia pure sul piano storiografico.
Certo, si trattò della storia di un fallimento, se vogliamo, ma anche
per questa ragione appare, io credo, una storia di particolare
interesse, da cui qualcosa, v’è da sperare, si potrebbe imparare per non
ricadere nei vecchi schemi, e non rifare gli eterni errori. Ma è da
temere che sia una speranza vana… Anche se non si può neppure accettare
che il solo criterio da utilizzare in politica sia quello dell’efficacia
e dunque del successo di una linea politica. Il PSIUP, partito
provvisorio, fu uno dei tanti lieviti che fecondarono la società e la
politica italiana del tempo. E tra le cose buone (poche) che sono
rimaste in campo, qualche briciola discende anche di là.